Dall’indebolimento dell’Alleanza atlantica l’opportunità di tornare a parlare di un’Europa dei popoli e delle Regioni. Il silenzio dei governatori del Nord

12 Marzo 2025
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di Bruno Perazzolo – Nel suo “Una Costituzione per i prossimi trent’anni, Laterza 1991 p. 141”, Gianfranco Miglio distingue le micronazioni dalle macronazioni.  Le prime sono vere nazioni fondate su una storia discretamente condivisa, una lingua con inflessioni locali che non ostacolano la comunicazione diffusa e un fitto reticolo di consuetudini (tradizione), di relazioni economico – sociali formatesi spontaneamente.

Le seconde, le macronazioni, sono invece il prodotto artefatto dello Stato moderno accentratore che conferisce al proprio potere politico una “velo di copertura” più o meno mitologica e propagandistica volta a legittimare la propria autorità a scapito delle vere, e necessariamente più piccole, nazioni spesso e volentieri semplicemente disconosciute e/o violentemente represse.

Giusto per fare qualche esempio, è stato, questo, il caso della Francia giacobina, dell’Italia dei Savoia e di quella fascista per non dire dell’orrore del regime sovietico staliniano. Tutti processi accentratori, questi, culminati in un’idea di nazione repubblicana e liberale, ovvero di Stato nazione e persino di “federalismo totalitario” che “grondava” del sangue e/o delle sofferenze della Vandea e/o delle molteplici insurrezioni meridionali e/o delle minoranze linguistiche del Sudtirolo o slavofone piuttosto che del popolo ucraino sterminato da Stalin (Holodomor è il nome con il quale si designa il genocidio per fame di oltre 6 milioni di persone, perpetrato dal regime sovietico, a danno della popolazione ucraina negli anni 1932 – 1933).

A dispetto del “mito dell’immortalità” (utilizzo qui le parole di Miglio), lo Stato moderno, nel ‘900, inizia a dare chiari segni di declino che l’ideologia ufficiale, ancora, fatica a riconoscere, ma che non possono sfuggire a chiunque si confronti criticamente con la questione delle nuove forme che l’autorità politica, soprattutto nella seconda metà del ‘900, va assumendo. La tensione che mette in crisi la poderosa “macchina burocratica” – ideata in analogia con la fabbrica fordista – taylorista immortalata della famosa scena della catena di montaggio di Charlie Chaplin nel film “tempi moderni” – è riconducibile fondamentalmente a due fattori antitetici.

Il primo, centripeto, è quello della formazione delle organizzazioni internazionali (Società delle Nazioni – 1920 – 1946; ONU dal 1945) e sovranazionali (la Comunità Economica Europea 1957, ora Unione Europea 1993) finalizzate, in primis, al mantenimento della pace perseguita principalmente, ma non esclusivamente, per mezzo dell’integrazione economica. 

Pace che, con due terribili guerre mondiali scoppiate in Europa nel giro di trent’anni (1914 – 1945), gli Stati Nazione avevano dolorosamente dimostrato di non saper assicurare. Il secondo fattore, questa volta centrifugo, è quello delle sempre più rapide trasformazioni tecnologiche e nelle relazioni economiche globali che, come denuncia giustamente Miglio, le strutture centraliste non riescono a gestire.

Da qui le crescenti pressioni dei corpi intermedi, delle singole imprese come delle associazioni datoriali e del lavoro autonomo e dipendente, per una crescente delegificazione, semplificazione e contrattualizzazione della normativa vigente capace di decentrare e responsabilizzare maggiormente gli organi periferici. In sintesi, il tema è quello del passaggio dalle organizzazioni verticali a quelle orizzontali altrimenti dette piatte.

Tema, quest’ultimo, che, per quanto ne so, in passato è stato anche utilizzato con una certa “ambiguità strumentale”, quasi a significare la sparizione di un “potere direzionale del centro” che, invece, in assenza di una forte autonomia degli organi periferici, promette di restare magari più forte di prima.E arrivo all’oggi. Per quanto si possa divergere sull’esito positivo o negativo delle recenti elezioni americane, una cosa è certa: l’Europa non potrà più, nel breve come nel medio-lungo periodo, confidare completamente nel sostegno degli Stati Uniti riguardo alla sua difesa e al suo sviluppo economico-strategico.

Da qui la necessità di un cambiamento epocale per un’organizzazione come quella dell’UE (Unione Europea) troppo lenta nei processi decisionali quando, addirittura, non del tutto impotente a causa di competenze sulla sicurezza come sulla politica estera che, benché scritte sulla carta (trattato di Maastricht), sono rimaste, per via del principio dell’unanimità del voto richiesta ai paesi membri per deliberare in queste materie, sostanzialmente in capo alla sovranità degli Stati nazionali. Credo che, a questo punto della mia esposizione, sia evidente a tutti o quasi a tutti, come, in questa situazione, il contrasto tra l’urgenza dei problemi che abbiamo di fronte e l’insufficienza dell’organizzazione preposta alla loro soluzione, apra uno spazio di confronto che, necessariamente, riporta ai gradi argomenti che sono stati alla base della nascita dell’UE.

Mi riferisco, soprattutto, all’alternativa Stati Uniti d’Europa piuttosto che Mercato Unico. Negli anni Cinquanta la scelta fu economica piuttosto che politica. Si decise allora di procedere per piccoli passi in base alla reciproca convenienza. Ora, è chiaro, nell’attuale contesto una scelta del genere non è replicabile. Quello che il mercato unico poteva dare l’ha già quasi completamente dato mentre, quello di cui disponiamo oggi, risulta del tutto insufficiente in rapporto alle sfide globali che i singoli paesi membri dell’UE devono affrontare per poter sopravvivere come entità oltre che fisica, anche civile e culturale.

Non resta, pertanto, altro da fare che imboccare la strada politica, quella degli Stati Uniti d’Europa, quella del Federalismo Europeo. Una strada tutta da costruire. Una strada per la realizzazione della quale, almeno per come la vedo io, non può certo mancare il contributo di ogni persona sinceramente interessata ai valori del federalismo e dell’autonomia.

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