I costi del centralismo. Prof. Perazzolo: Pressione fiscale dagli anni ’90 ad oggi non cambia. Perché? Chi drena i soldi?

26 Marzo 2025
Lettura 4 min

di Bruno Perazzolo – “Siamo entrati in una fase discendente della storia dello Stato moderno. Gli aspetti negativi della concezione unitaria, sovrana e accentrata del potere appaiono sempre più evidenti in ogni parte del mondo, dove gli Stati unitari e burocratici sono diventati macchine fiscali insaziabili, indebitate e fuori controllo, che consumano in maniera inesorabile le ricchezze prodotte dalla società”. Così si esprimeva Gianfranco Miglio in “Federalismo e Secessione”, Mondadori 1997.

Non si tratta forse dell’unica sintesi in circolazione, ma, “in sé e per sé”, la sintesi è perfetta. Dopo gli anni ’80, dominati dalle figure di Reagan e della Thatcher, l’osservazione di Miglio non era certo del tutto originale. Conteneva, però, un punto abbastanza, se non proprio del tutto, inedito: l’idea che la crisi fiscale dello Stato andasse ben oltre il declino dei sistemi di Welfare (Stato del benessere). In altre parole, si trattava della crisi dello Stato centralista nazionale moderno dalla quale non si sarebbe potuti uscire con un semplice ritorno al “Laissez  faire” di ottocentesca memoria. Purtroppo, o per fortuna, gli ultimi decenni hanno dato piena ragione al pensiero di Miglio. Dopo la crisi dello Stato Assistenziale (Welfare, Stato del Benessere) degli anni ‘80, stiamo assistendo, ora, anche al recente crollo di quello che, nel suo illuminante saggio del 2022, Gary Gerstle, chiama “declino dell’ordine neoliberale” dello stesso Reagan e della Thatcher.

Un crollo che, in Occidente, apre ad un’epoca di grande incertezza che, a mio giudizio, si sviluppa interamente all’interno di due, opposti, estremi: autocrazie contro federalismo. Scrivendo negli anni ’90, anni nei quali il futuro del pianeta sembrava pendere dalla parte delle democrazie, Miglio aveva giustamente intravisto solo il federalismo come unico sbocco possibile alla crisi dello Stato centralista. A quasi trent’anni di distanza dal suo “Federalismo e Secessione”, ahimè, all’orizzonte sembra profilarsi, con forza anche maggiore, l’opzione diametralmente opposta: quella dei sistemi autarchico-oligarchici.

Regimi, questi ultimi, che, pur essendo relativamente diversi da totalitarismi del ‘900, rappresentano comunque una sfida mortale per le nostre società che, sino a ieri, e un poco ancora oggi, sono fondate sui valori della libertà e dell’eguaglianza: le uniche, autentiche radici spirituali del Nord.

Ma qual è il “gioco di prestigio” in forza del quale “gli Stati unitari-burocratici sono diventati macchine insaziabili, indebitate e fuori controllo, che consumano in maniera inesorabile le ricchezze prodotte dalla società”? Per capirlo non è necessario essere economisti neoclassici marginalisti o conoscere la teoria dell’”equilibrio del consumatore”.

Basta essere una buona madre o un buon padre di famiglia e immaginarsi di stare al supermercato. Dove mettereste i vostri soldi? Ovviamente partireste dall’acquisto delle cose più utili e, da lì, man mano che vi avanza del danaro, passereste a quelle un po’ meno utili. Tutto questo è comprensibile a chiunque. Ma lo Stato Burocratico non funziona così. Meglio, non funziona così dal punto di vista dell’interesse dei cittadini.

Lo Stato unitario pratica un trucco: scucire i soldi dalle tasche della gente; portarli il più lontano possibile (al Centro) in modo che le persone, non riconoscendoli più come ROBA LORO, li valutino di meno; restituirne, infine, UNA PARTE ai territori dai quali sono stati sottratti, come se fossero “regalati dal buon politico di turno” e, quindi, in quanto regalati, anche relativamente sprecabili. A questo punto, però, bisogna dire che le apparenze ingannano. Alla fine, ciò che sembra illogico diventa perfettamente ragionevole. Infatti, poiché è sulla differenza tra l’entità della spesa pubblica impiegata e la scarsa utilità che la gente ne ricava (scarsa qualità dei servizi e dei beni pubblici) che “il buon politico di turno” costruisce il suo vantaggio, si capisce bene che ciò che il cittadino e il sistema produttivo chiamano spreco, il “buon politico di turno” e il partito al quale appartiene, lo chiamano consenso.

In altri termini, si tratta del SISTEMA PARTITOCRATICO CLIENTELARE che, da sempre, ha caratterizzato il nostro paese e che, soprattutto a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, ha fatto esplodere spesa e debito pubblico con punte di inflazione da spavento, portato la pressione fiscale su livelli (il 42% circa) in precedenza mai conosciuti. Livelli che hanno, da allora sino ai nostri giorni, pregiudicando ogni possibilità di crescita strategica della nostra economia generando quel fenomeno che, tecnicamente, passa sotto il nome terribile di STAGFLAZIONE: inflazione più disoccupazione più stagnazione.

Per illustrare meglio come funziona il “gioco di prestigio partitocratico centralista”, provo ora ad indicare alcune semplici situazioni tipiche. Vi è mai capitato di assistere, magari qualche mese prima delle elezioni, a monumenti restaurati, piazze rimesse a nuovo, marciapiedi inaugurati ecc.? Vi è mai capitato di vedere piste ciclabili semiabbandonate con staccionate in legno e passerelle su laghi e zone umide, sempre in legno scarsamente trattato, soggette ad un rapidissimo deterioramento? Etc. Etc.

Se si vanno a vedere i conti, in genere si tratta di opere realizzate su progetti vincolati (calati dall’alto) e relativamente molto costosi il cui aggravio si spiega con procedure ripetute e inutilmente dispendiose e/o con la pura e semplice corruzione; ovvero, con lo sviluppo di clientele locali più o meno estese dalle quali il partito e/o il politico patrocinatore traggono consenso e sostegno elettorale. Un consenso ed un sostegno che non provengono solo dai diretti interessati (es. consulenti, imprese) alla realizzazione dell’opera pubblica. Anche i “cittadini meno avveduti” vi concorrono dal momento che l’opera viene presentata loro come GRATUITA.

Dunque, se non costa nulla a noi, perché non farla? Perché non cogliere l’occasione che altrimenti potrebbe essere colta da altri? Anche se il costo è esagerato e l’utilità del bene e/o del servizio è scarsa, alla fine paga lo Stato, quindi va sempre bene.

Ragionando di queste cose, in genere ci si ferma al danno economico che certamente non è trascurabile. Per come la vedo io, però, il danno va ben oltre e, ciò che va ben oltre, è anche più grave del danno economico. Poiché il sistema centralista di spesa porta naturalmente le persone a vedere nell’amministrazione pubblica un soggetto lontano ed estraneo, ciò che si corrompe è, in primo luogo, la nozione genuina della cittadinanza. Nozione, quest’ultima, necessariamente incentrata sul dovere di cura dei beni comuni piuttosto che sul diritto di ciascuno a “spennare lo Stato il più possibile”. Secondariamente, è evidente che, nel gioco partitocratico, alla lettera, ciò che guadagnano le forze politiche sperperando il danaro pubblico al fine di “autogenerare il loro consenso”, lo perde in misura maggiore la sovranità popolare.

È in questo contesto che, la visione di Miglio, resta di assoluta attualità. O lo Stato democratico assume la forma federale RI-AVVICINANDO i cittadini alla gestione della cosa pubblica e RESPONSABILIZZANDO I CENTRI DI SPESA a tutti i livelli, da quello municipale a quello federale, oppure la crisi irreversibile dello Stato nazionale moderno non potrà che sfociale nelle oligarchie autocratiche.

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