di Stefania Piazzo – Ma non è che Maurizio Landini, nell’invitare alla “rivolta sociale”, stia invitando alla lotta fisica, contro le istituzioni, allo scontro di piazza, quando prepara il terreno per lo sciopero generale? Io credo proprio di no.
D’altra parte, non ci pare che in questi decenni il sindacato abbia mai messo in atto rivoluzioni copernicane, dalla Cgil all’intera triplice. E ci pare anche che la crisi della rappresentanza oggi coinvolga i partiti tanto quanto i sindacati. La politica appare inerte nel saper affrontare la crisi economica. Non aggiusta un Paese duale, così come non lo aggiusta il sindacato. Che però può ancora parlare ai lavoratori, giocarsi la carta dell’ingiustizia sociale, essendo comunque fuori dal Palazzo che fa le leggi. Ma che quelle leggi potrebbe di più orientare verso i lavoratori.
La crisi di consenso dei partiti investe tutti, e il segretario della Cgil ha l’opportunità, in un momento in cui il Paese non sta affatto bene, tra pensioni almeno a 70 anni, giovani in fuga, denatalità, case inaccessibili, ha appunto l’opportunità di dare voce a quella maggioranza che non vota, non crede più ad un futuro, ha perso un sogno, e non ha più speranza. Dice Landini al Corriere: “Arriviamo allo sciopero generale dopo quello di metalmeccanici, chimici, scuola, trasporti locali e le manifestazioni di pubblico impiego, pensionati e studenti. E dopo una legge di Bilancio e un Piano strutturale che vincola il Paese a 7 anni di austerità. Ho richiamato la rivolta sociale per dire alle singole persone di non voltarsi dall’altra parte rispetto alle diseguaglianze e mobilitarsi insieme”.
Aggiunge anche: “Lo Stato sociale e i diritti nel lavoro esistono grazie alle lotte del sindacato. Del resto, è la Costituzione che dice che siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Oggi non è così, si è poveri anche lavorando e i giovani sono precari e costretti a emigrare”.
Sono le due questioni di fondo, quella meridionale e quella settentrionale. E di fondo c’è l’assenza di una classe politica qualificata, di una burocrazia qualificata, di una scuola qualificata, e di imprenditori qualificati. Il tutto ingessato dalla paura di perdere le risorse del Nord. Una brutta, bruttissima legge sull’autonomia, nata per morire, fermata dai “cattivi” giudici, fa da cornice al quadro desolante di una rivoluzione mancata.
C’aveva provato Umberto Bossi, innescando il meccanismo della devoluzione, prima ancora c’aveva provato Berlinguer con Moro per uscire dai blocchi delle mafie di potere, e oggi ci prova Landini, che raccoglie la rabbia di un Paese più povero, dove i diritti sono soggetti alle leggi di bilancio e ai parametri europei. Col risultato che non ci si sente più né italiani né europei. Forse, quella rivolta sociale occorreva rivendicarla prima, e chiedersi perché una classe di corrotti ha devastato la sanità nei decenni, con ospedali costruiti e lasciati marcire, con multinazionali sovvenzionate per fare utili in Italia e poi lasciate delocalizzare senza che ci fosse un domani.
La globalizzazione non è stata una vittoria, il liberismo non ha portato ricchezza diffusa. Lo statalismo non è garante di un rinnovamento della macchina pubblica. E’ un parcheggio di vecchi e giovani dinosauri, sistemati a vita.
Quando Nord e Sud verranno visti non come duellanti, dal sindacato, ma come attori distinti che hanno bisogno di distinte “rivolte sociali”, per non perdere capra e cavoli?