di Roberto Gremmo – E’ prevedibile che fra pochi giorni nell’anniversario dell’attentato di via Rasella e della strage Ardeatina torneranno in circolo le solite, ormai ufficiali versioni su quelle drammatiche vicende di Roma ‘città aperta’.
Coerenti col proprio impegno di essere sempre fuori dal coro, iniziamo a pubblicare su la Nuova Padania la documentazione che abbiamo raccolto negli anni per “Storia Ribelle” su nuove letture di quell’attentato e della successiva strage gelosamente conservati per settant’anni.
Interrogato dagli Alleati, il poliziotto Alianello dichiarò che il “Partito Comunista” sapeva in anticipo i nomi delle vittime della strage ardeatina. Un segreto ben custodito concerne i rapporti sotterranei, mai davvero scandagliati, fra i ‘gappisti’ che colpirono in via Rasella e i ‘collaborazionisti’ italiani dei nazisti.
Questo rappresenterebbe un esplosivo e sconcertante documento su un ‘patto infame’ colpevolmente trascurato fino ad oggi, stando a queste verità.
A quanto pare nel resoconto dell’interrogatorio di fronte agli Alleati del commissario di polizia Raffaele Alianello, sospettato di collaborazionismo e che al colonnello Pollock si sarebbe giustificato sostenendo d’essere stato un avversario occulto dei nazisti:
“In merito all’eccidio dei 320 [sic] italiani da parte dei tedeschi in Via Rasella (dei 32 tedeschi uccisi 26 morirono subito e gli altri 6 morirono, invece, poco dopo), dichiaro che, quale Funzionario di Polizia in collegamento tra il Ministero Interno e le S.S. tedesche, verso le ore 18 o 19 del 23 marzo u.s. fui chiamato da Kappler, capo delle SS, in Roma, il quale, indignato per quanto era avvenuto, mi disse che sarebbe andato da Kesserling per ricevere ordini e mi pregò di ritornare da lui, presso l’Ambasciata tedesca, alle ore 9 del mattino successivo. Presentatomi da Kappler all’ora fissata, egli mi fece presente di aver ricevuto ordine da Kesserling di far fucilare 320 italiani, quale rappresaglia per l’uccisione dei 32 tedeschi del giorno precedente. Lo stesso Kappler mi disse che già avevano una lista di 270 persone, e cioè quelle detenute a disposizione dei tedeschi in via Tasso e al braccio tedesco di Regina Coeli. In tal modo furono presi tutti i detenuti a disposizione dei tedeschi, esclusi solo pochi che avevano lievi imputazioni. Nell’elenco dei 270 vi erano alcuni già giudicati dal Tribunale tedesco e, forse, qualcuno anche condannato a morte dallo stesso tribunale. In via Tasso i detenuti venivano trattenuti per essere interrogati ed accertare la loro colpevolezza, quindi venivano passati a Regina Coeli […] Kappler, quando mi presentai a lui il mattino del 24 marzo, non aveva l’elenco dei 270 da fucilare […] Non sò se tra i 50 detenuti presi a Regina Coeli dai bracci italiani vi fossero stati dei comunisti; sò, però, che vi erano parecchi del Partito d’Azione. Non ho lavorato con il Partito d’Azione ma ho lavorato in favore di tutti i partiti. […] Kappler aveva 37 anni. Non era cattivo; quelli che parlavano con lui ne riportavano una buona impressione. Da lui ho ottenuto la liberazione di certo Sprovieri che lavorava con il Generale Oddone […] Avuto da Kappler l’ordine di andare da Cerruti e chiedere l’elenco di 50 persone da fucilare volevo evitare ciò, come feci altra volta e precisamente in occasione dell’attentato di Piazza Barberini quando evitai di far fucilare 50 italiani, ma questa volta non mi fu possibile far niente in quanto l’ordine di fucilare i 320 era stato dato da Kesserling. Prima di andare da Cerruti mi recai a Via Tasso ove si trovava detenuto certo Trombadori (ora segretario di S.E. Scoccimarro), che interessava molto al Partito Comunista e per il quale ero riuscito a far interrompere il proseguimento delle indagini. In via Tasso non vi trovai che un tedesco delle SS,; non vi era alcun italiano. Seppi che il Trombadori non era compreso fra quelli da trucidare. Il Trombadori fu arrestato a via Giulia quando fu scoperto un deposito di bombe”.
Alianello avrebbe aggiunto che, dopo aver avvertito Trombadori, sarebbe poi tornato in Questura dove avrebbe assistito alla compilazione di un elenco di detenuti da assassinare. Poi si sarebbe recato a Regina Coeli a consegnare la macabra lista al direttore delle carceri ma ne avrebbe tenuto per sé una copia che “comunic[ò] al Partito Comunista”.
Sono parole devastanti.
Vanno comunque prese con grande cautela, perché pronunciate da un individuo che doveva difendersi dalla terribile accusa d’aver avuto un ruolo attivo della grande strage ardeatina.
Nel proseguo dell’interrogatorio, Alianello avrebbe poi negato temerariamente d’aver collaborato con Caruso nel redigere materialmente l’elenco dei detenuti da eliminare ma venne smentito quando sul foglio con quei nomi venne riconosciuta anche la sua scrittura.
Mentiva o affermava la verità?
Nei giorni in cui veniva interrogato da Pollok, l’uomo del P.C.I. che aveva chiamato in causa, Antonello Trombadori era vivo e vegeto, ricopriva un ruolo di primo piano dell’organizzazione togliattiana e v’é da chiedersi se i suoi compagni che si occupavano dell’epurazione, lette quelle dichiarazioni, lo avessero informato. Alianello avevrebbe dunque corso un grosso rischio facendo il nome di una persona che poteva smentirlo; ma, per quel che risulta, il dirigente del P.C.I. non avrebbe detto nulla.
E’ un fatto che il 24 marzo 1944 Trombadori era davvero rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ricoverato in infermeria.
Ma un documento dell’inchiesta sui crimini della famigerata ‘banda Kock’, sfortunatamente non utilizzato in sede processuale e rimasto per anni a prender polvere, sembrerebbe rivelare che il groviglio fra ‘resistenti’ e repubblichini sarebbe stato ben più articolato.
Il ‘traditore’ Blasi avrebbe dichiarato alla polizia che il “gappista Franco” era in combutta con la ‘banda Koch’. Guglielmo Blasi che fu uno dei ‘gappisti’ di via Rasella per poi aggregarsi agli scherani torturatori del famigerato ‘reparto di Polizia’ del dottor Pietro Koch, dopo la cattura venne interrogato nel carcere di San Vittore e, senza rendersi conto della gravità delle sue affermazioni, fece presente che un altro uomo dei “Gruppi d’Azione Patriottica” romani, “un certo Franco […] abitante attualmente a Stresa” sarebbe stato “intermediario tra Koch e diversi elementi della banda”.
L’accusa era grave ma, stranamente, benché nel 1945 il clima fosse quello d’un montante giustizialismo, l’uomo messo sotto accusa da Blasi non venne mai cercato.
(1 – continua)