di Cuore verde – In un mio precedente commento pubblicato da La Nuova Padania, dopo l’esito delle elezioni in Liguria, scrivevo che il PD avrebbe dovuto “cercare innanzitutto di dare una risposta al cambiamento della politica sostenendo il dinamismo della società nei suoi vari aspetti compreso quello delle molteplicità identitarie ed etno-culturali. Ecco quindi l’esigenza di uno stato federale per avvicinare la decisione politica al luogo in cui si manifestano i bisogni.”
In questo senso, ho certamente apprezzato l’intervento sul Fatto Quotidiano del 31 ottobre di Stefano Fassina, economista ed ex- deputato (PD, Sinistra Italiana-SEL, LeU) dal titolo “Liguria, il campo progressista deve essere nazional-popolare”.
Nel 2018, Stefano Fassina, ha promosso la nascita di Patria e Costituzione (PeC), associazione di cultura e iniziativa politica, “dalla parte del lavoro, per affrontare la domanda di comunità, di protezione sociale e culturale, per rideclinare il nesso tra sovranità democratica nazionale e Ue, per definire strumenti adeguati per lo Stato per intervenire nell’economia”.
Ecco un passaggio dell’intervento di Stefano Fassina, dal mio punto di vista, certamente condivisibile:
“La destra nazionalista è al servizio dei forti ma offre, istintivamente, in risposta al lavoro impoverito e precario e alle classi medie spiaggiate, chiusura e nostalgia di un passato idealizzato e, come capro espiatorio, i migranti, pur fattore destabilizzante da governare. Il versante progressista rimane, invece, ancorato all’ideologia cosmopolita, euro-federalista, post-umanista, senza cultura del limite, a parte qualche esperienza positiva (l’alleanza guidata da Sahra Wagenknecht in Germania, in parte la France Insoumise e, con limiti e contraddizioni, il M5S da noi). Per risalire la china, si dovrebbe leggere l’esito ligure nel quadrante degli ultimi anni. Dal 2016 (Brexit e debutto di Trump alla Casa Bianca), ogni passaggio elettorale negli Stati dell’Ue ha evidenziato che la sinistra ufficiale, in tutte le sue formazioni, è fuori fase storica”.
E ancora, citando il filosofo Mario Tronti:
“La tradizione, se ben compresa, ben usata, è una grande potenza di trasformazione dell’esistente. La tradizione è popolo, e il popolo è la tradizione. Se non ti radichi lì dentro, non c’è nessuna possibilità di cambiare il fondo delle cose”.
In conclusione, secondo Stefano Fassina:
“Per la persona-comunità, Nazione e Patria, come famiglia, sono parole da recuperare nel senso della Costituzione: fonti decisive di legami sociali; luoghi protettivi, ma aperti e solidali; fondi di partecipazione politica nella dimensione nazionale, l’unico spazio democratico agibile da ciascun popolo per legittimare la necessaria cooperazione europea. L’area progressista può continuare e rimuovere le discontinuità di fase, ma rimane fuori gioco”.
Queste analisi sono senz’altro apprezzabili. Tuttavia, secondo me, bisogna cercare di evitare una visione monolitica della nazione e della patria, ovvero, la concezione centralista e anti-federalista che si protrae fin dall’unità d’Italia (vgs. “Federalismo e autonomia in Italia dall’Unità a oggi” a cura di Claudia Petraccone, 1995, Ed. Laterza) allo scopo di tenere insieme popoli diversi dal punto di vista storico, etnico e culturale, senza condividere le loro reali aspirazioni, anzi, ostacolandole in ogni modo, definendo, soprattutto quelle autonomiste, come una forma di retrivo egoismo e, in definitiva, come e veri propri tentativi di minare l’indivisibilità dello stato.
“Nazione e patria”, nello stato italiano, dovrebbero quindi essere declinate al plurale come spiegava nel 1911 con le seguenti parole lo psicologo, sociologo e criminologo Scipio Sighele (Brescia, 1868 – Firenze, 1913) nel suo testo “Il Nazionalismo e i Partiti politici”.
“Ciò che vive non è mai simmetrico: ciò che è naturale è sempre variato. La centralizzazione eccessiva urta contro questa verità, perché vuol ridurre a un unico livello, foggiare in un unico stampo, idee costumi abitudini temperamenti che sono etnicamente e storicamente diversi, e fabbrica. — per sua comodità — un solo tipo d’italiano che non esiste. Esistono, in realtà, parecchi tipi di italiani, quante sono le nostre regioni; tipi diversi, ma non contrarii fra loro, e che costituiscono anzi, nelle loro diversità simpatiche e convergenti, l’unità mirabile dell’organismo nazionale. Tutti gli organismi superiori — gli individuali come i collettivi — sono composti di diversi organi, ognuno dei quali contribuisce alla vita del tutto, a patto però che ognuno sia considerato e trattato secondo la sua natura e la sua speciale funzione. Violentare questa diversità, e cercar di annientarla con un trattamento identico, significa fare il danno dell’organismo.”
(…)
“L’esagerazione e l’iperbole, che sono fra i nostri maggiori difetti, ci hanno fatto credere che noi eravamo non soltanto tutti fratelli ma anche tutti eguali da un capo all’altro della penisola, e siamo andati sempre innanzi sulle stampelle della retorica e al suono dei grandi nomi, proclamando che noi dovevamo essere tutti amministrati ad un modo fin nelle minime particolarità, italiani della Sicilia, e del Veneto, del Piemonte e della Calabria. E quando — dapprima — qualche voce isolata di osservatori indipendenti osò ammonire: — badate, noi siamo diversi per razza, per storia, per abitudini, e bisogna quindi piuttosto che imporre a forza un’unificazione amministrativa formale, preparare a poco a poco un’unificazione sincera e reale, — i più copersero quelle voci isolate sotto il clangore degli squilli della loro retorica patriottica; e quando più tardi quelle voci s’alzarono più forti e più numerose e non fu possibile ridurle al silenzio, si disse da molti che erano l’opera di scuole scientifiche superficiali e paradossali, o di uomini e di partiti che volevano minare l’unità politica del nostro paese.”
(…)
II decentramento, che è in fondo la dottrina delle autonomie locali, dottrina determinata non tanto dal capriccio degli uomini quanto dai loro interessi e dai loro caratteri di ordine economico e storico, risponde non solo a un principio di logica e di giustizia, ma risponde anche — se mi è permesso di esprimermi così, — a un principio di psicologia. Il decentramento cioè rispetta quel sentimento della «piccola patria», che molti credono un pregiudizio, che troppi vorrebbero distruggere come contradditorio e pericoloso al sentimento della «grande patria». Invece a me non pare vi sia dissidio fra il piccolo patriottismo e il patriottismo grande : a me pare che l’uno raddoppi l’altro. Io amo il mio Trentino appassionatamente, e forse è questa l’oscura ragione per cui amo appassionatamente anche l’Italia. Diffidate di chi non ha una tenerezza speciale per la terra ove è nato : mi somiglia al figlio che non ha una preferenza per la sua mamma : come saprà costui veramente amare la sua città, la sua nazione?”
Scipio Sighele, seppur convinto nazionalista, proponeva l’adozione del sistema federale tedesco.
Attualmente, seppur in modo non ancora ben definito, si colgono segnali di apertura verso concetti quali patria e nazione, ovvero, la possibilità di un progetto politico aperto all’identità etno-culturale. E allora mi chiedo, fino a quando parole come quelle di Scipio Sighele rimarranno ancora confinate nelle analisi degli studiosi specializzati? Le idee federaliste di Scipio Sighele dovrebbero entrare non solo nell’agenda politica delle forze politiche della sinistra ma anche in quella di tutti gli altri partiti.
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