Itinerari previdenziali: la spesa pubblica divorata dall’assistenza, finanziata dalle tasse, e pagate da una minoranza. Lo scandalo delle banche dati che non comunicano tra enti. Così le pensioni pagano pegno

17 Gennaio 2025
Lettura 13 min

Itinerari previdenziali a illustrato ieri alla camera dei deputati il 12° Rapporto sulla salute del sistema pensioni in Italia. Di seguito riportiamo il documento che presenta il rapporto sul sito itinerariprevidenziali.it a firma di Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.

Ecco di seguito l’analisi integrale dello studio che sempre più si dimostra essenziale per comprendere le dinamiche del welfare.

Per chi volesse una sintesi ecco i passaggi salienti.

  • La spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 50,93% e assorbito il 58,57% del totale delle entrate contributive e fiscali statali. 
  • Il 75,80% degli italiani dichiara redditi da 0 fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 24,43% di tutta l’IRPEF, un’imposta neppure sufficiente a coprire i costi delle principali voci della spesa per protezione sociale, il cui finanziamento grava quindi sulle spalle degli altri versanti e, in particolare, di quei 6 milioni di contribuenti che dichiarano redditi oltre i 35mila euro. Un’enorme redistribuzione di risorse di cui spesso i beneficiari non si rendono neppure conto. 
  • Tra le possibili soluzioni individuate dal Rapporto, oltre alla messa in moto della banca dati, anche una profonda revisione dell’ISEE e controlli fiscali e contributivi più serrati, ad esempio – come accade in altri Paesi – nei confronti di quei cittadini che superati i 35 anni di età non abbiano ancora presentato una dichiarazione dei redditi. 
  • Oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,25% (+78 miliardi) a fronte dei “soli” 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,53%) e del 29,26% del nostro Prodotto Interno Lordo.
  • Necessità di separare previdenza e assistenza,
  • A pesare sul deficit del sistema pensionistico soprattutto il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici, che evidenzia da sola un passivo di oltre 44 miliardi (erano 33 prima della pandemia). Seguono per dimensione dei disavanzi, artigiani, coltivatori diretti coloni e mezzadri, e giornalisti dipendenti che, pur confluiti in INPS, mostrano uno dei loro peggiori saldi di gestione (-272,28 milioni).
  • Al 2023 risultano in pagamento 3.845.483 trattamenti di natura interamente assistenziale (invalidità civile, indennità di accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) per un costo totale annuo di 23,013 miliardi, in costante aumento.
  • Nel 2023, la spesa sociale complessiva ha di fatto assorbito il 58,57% del totale delle entrate contributive e fiscali statali. 
  •  «Dovrebbe quantomeno far riflettere il fatto che un Paese del G7 come l’Italia abbia erogato forme di assistenza al 40% dei suoi pensionati», il commento del Prof. Alberto Brambilla, coordinatore della ricerca che, nel corso del dibattito non ha oltretutto mancato di ricordare come, a differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano completamente sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a tassazione. 
  • «Ecco perché il tema dell’adeguata comunicazione di questi dati non riguarda solo il dialogo con le istituzioni europee – ha spiegato il Prof. Brambilla – ma l’intero Paese, ormai assuefatto “all’assistenza di Stato”, anche per colpa delle promesse di una politica in perenne campagna elettorale e di misure a sostegno del reddito o volte a contrastare l’esclusione sociale finite impropriamente sotto il capitolo pensioni».
  • Un quadro cui si aggiunge l’inefficienza della macchina organizzativa, ancor oggi priva di una banca dati dell’assistenza e di un’anagrafe centralizzata di lavoratori attivi previste da norme del 2004 e del 2015.
  • Il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali stima che per finanziare sanità e assistenza, nel 2023, siano occorse pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche circa 33 miliardi di imposte indirette. Di conseguenza, per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono che imposte residue, altre entrate e soprattutto il “debito”, ponendo peraltro anche un tema di equità e sostenibilità del sistema.
  • «Giusto per avere un termine di raffronto – commenta Brambilla – a scuola e università sono riservati circa 83 miliardi contro i 90 per gli interessi sul debito pubblico, il che dovrebbe far riflettere tutti i cittadini pronti a ogni tornata elettorale a “premiare” le promesse più generose.

Va ricordato che lo scorso anno lo stesso presidente del Centro studi, Alberto Brambilla, aveva scritto: “Secondo l’ultimo studio di Itinerari Previdenziali sui redditi relativi al 2022, dichiarati nel 2023 ed elaborati dal MEF in questi ultimi mesi, quelli che fanno una dichiarazione dei redditi positiva e quindi pagano almeno 1 euro di IRPEF sono solo 32,373 milioni di cittadini su 59,030 milioni di abitanti. Significa che il 45% degli italiani non ha redditi e quindi vive a carico di qualcuno, ma c’è di più: infatti, su circa 42 milioni di dichiaranti il 93,7% dell’intera IRPEF è pagato da 19,66 milioni di contribuenti, mentre i restanti 22,35 milioni ne pagano solo il 6,31%. Domanda: per quanto tempo può durare un Paese se una minoranza deve pagare per tutti?

Entriamo maggiormente nel dettaglio. Il 40,35% dei dichiaranti con redditi da negativi a zero, da zero a 7.500 euro lordi l’anno e da 7.500 a 15mila euro lordi l’anno – che, con le persone a carico, fanno 23,818 milioni di abitanti – versa l’1,28% di tutta l’IRPEF. La metà di questi non paga nulla: né tasse né contributi. (fonte https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/ilpunto/il-punto-di-vista/meno-tasse-e-quel-ceto-medio-che-continua-a-pagare-per-tutti.html)

di Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. – Nel 2023 l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 583,712 miliardi di euro, con un incremento del 4,32% rispetto all’anno precedente (24,2 miliardi): la spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 50,93%. Percentuale inferiore rispetto al 2022 (51,65%) ma soprattutto per effetto del notevole incremento delle spese in conto capitale. Rispetto al 2012, e dunque nell’arco di poco più di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di 151,448 miliardi strutturali (+35%); aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,25% (+78 miliardi) a fronte dei “soli” 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,53%) e del 29,26% del nostro Prodotto Interno Lordo.

È quindi un quadro che richiama nuovamente l’attenzione sulla necessità di separare previdenza e assistenza, contenendo e razionalizzando maggiormente quest’ultima, quello tracciato dal Dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentato ieri in diretta streaming dalla Sala della Regina della Camera dei Deputati. Una sintesi degli andamenti di spesa pensionistica, entrate contributive e saldi nelle differenti gestioni pubbliche e privatizzate, cui si aggiunge un’importante opera di riclassificazione utile sia a tracciare un bilancio del 2023, ultimo anno di rilevazione disponibile, sia a effettuare previsioni sulla sostenibilità di medio e lungo periodo del welfare italiano. 


L’andamento della previdenza obbligatoria 

Dopo il crollo dovuto a COVID-19 e misure di lockdown, tornano a crescere per il terzo anno consecutivo le entrate contributive che, anche grazie all’effetto dell’incremento di salari e tassi di occupazione, salgono del 5,22% toccando quota 236,68 miliardi di euro, dato ampiamente superiore a quello pre-pandemico. Il saldo – comunque negativo – tra entrate e uscite si attesta a 30,42 miliardi: a pesare sul deficit del sistema pensionistico soprattutto il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici, che evidenzia da sola un passivo di oltre 44 miliardi (erano 33 prima della pandemia). Seguono per dimensione dei disavanzi, artigiani, coltivatori diretti coloni e mezzadri, e giornalisti dipendenti che, pur confluiti in INPS, mostrano uno dei loro peggiori saldi di gestione (-272,28 milioni). Quattro, invece, le gestioni obbligatorie INPS con saldi positivi: i lavoratori dipendenti che – al netto delle gestioni speciali poi confluite nel FPLD – presentano un attivo di 15,107 miliardi di euro; i commercianti, con un attivo di 1,154 miliardi; i lavoratori dello spettacolo ex ENPALS, con 468,71 milioni di euro, e la Gestione Separata dei lavoratori parasubordinati. Con un saldo che passa da 8,477 a 8,627 milioni, quest’ultima resta indubbiamente favorita dall’istituzione piuttosto recente, avvenuta nel 1996, e dunque dal numero ancora ridotto di pensionati, spesso peraltro percettori di assegni dall’importo contenuto. 

Positivo anche il saldo previdenziale delle Casse privatizzate dei liberi professionisti che, giovando come i subordinati di un buon rapporto attivi/pensionati, sale a 4,318 miliardi di euro. L’apporto complessivo delle gestioni attive, pari a 29,675 miliardi, risulta dunque essenziale per il contenimento del deficit pensionistico che, diversamente, supererebbe i 60 miliardi di euro. 

Nel complesso, la spesa pensionistica di natura previdenziale comprensiva delle prestazioni IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti) è ammontata nel 2023 a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%) sul quale hanno pesato sia l’aumento del numero di pensionati (+98.743 rispetto al 2022) sia la rivalutazione degli assegni di importo più basso all’inflazione (+7,3%, ricalcolato all’8,1% per le minime). 

L’incidenza sul PIL è pari al 12,55%; percentuale che scende all’11,48%, valore più che in linea con la media Eurostat, se si escludono dal calcolo GIAS dei dipendenti pubblici, maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo per il settore privato (22,809 miliardi in totale), spese che la stessa INPS classifica in realtà come assistenziali.

 «La percentuale cala addirittura all’8,56% escludendo anche i circa 62,2 miliardi di imposte (IRPEF) che in molti Paesi dell’Unione o di area OCSE sono molto più basse, quando non del tutto assenti, sulle pensioni. Un “esercizio” di calcolo – ha commentato il Professor Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel corso dell’evento di presentazione – tutt’altro che sterile se si considera che la corretta determinazione di questi dati è fondamentale per evitare che eccessive sovrastime influenzino negativamente le agenzie di rating o convincano l’Europa a imporre tagli alle pensioni che, come evidenziano questi numeri, presentano invece una spesa tutto sommato sotto controllo». Come sottolinea il Rapporto, stupiscono allora ancora di più i dati comunicati dalle nostre istituzioni in sede europea, con i valori Eurostat sul 2021 (ultimi disponibili) relativi a pensioni di vecchiaia, anticipate e superstiti che ammontano per l’Italia al 16,30%, contro il 12,90% della media UE. 

Figura 1 – Il bilancio delle pensioni previdenziali (dati in milioni di euro) 

Figura 1 – Il bilancio delle pensioni previdenziali (dati in milioni di euro)

Fonte: Dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Itinerari Previdenziali


Le principali voci della spesa assistenziale italiana 

Al 2023 risultano in pagamento 3.845.483 trattamenti di natura interamente assistenziale (invalidità civile, indennità di accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) per un costo totale annuo di 23,013 miliardi, in costante aumento malgrado il calo – fisiologico e costante – delle pensioni di guerra. Nello stesso anno, sono state poi erogate altre 3.759.126 prestazioni parzialmente assistenziali (maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, importo aggiuntivo), di cui 2.259.766 integrazioni al trattamento minimoTenendo conto che uno stesso soggetto può essere titolare di più prestazioni, al netto delle duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità, i pensionati totalmente o parzialmente assistiti sono dunque 6.556.991, vale a dire il 40,40% del totale.  

Tabella 1 – Il numero di pensionati parzialmente o totalmente assistiti e le prestazioni liquidateTabella 1 – Il numero di pensionati parzialmente o totalmente assistiti e le prestazioni liquidate
Fonte: Dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Itinerari Previdenziali

Stima che oltretutto appare agli estensori del Rapporto, sicuramente in difetto, se si tiene conto di ulteriori prestazioni come la pensione di cittadinanza o, ancora, di  quelle categorie di pensionati che, per età e anzianità contributiva, possono beneficiare anche separatamente di un’ulteriore prestazione assistenziale. «Dovrebbe quantomeno far riflettere il fatto che un Paese del G7 come l’Italia abbia erogato forme di assistenza al 40% dei suoi pensionati», il commento del Prof. Alberto Brambilla, coordinatore della ricerca che, nel corso del dibattito non ha oltretutto mancato di ricordare come, a differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano completamente sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a tassazione. Se poi si considerano anche il sostegno a lavoratori attivi, e quindi forme di cassa integrazione, NASpI e così via, lo Stato italiano nel solo 2023 ha dato assistenza a circa 12 milioni di connazionali, una situazione insostenibile dal punto di vista socio-economico e che limita fortemente la crescita del Paese.

In linea con le precedenti pubblicazioni, anche la nuova edizione del Rapporto suggerisce allora, innanzituttouna corretta separazione tra previdenza e assistenza, e quindi una razionalizzazione della spesa assistenziale, che ormai da troppo tempo appesantisce le finanze statali, generando debito e sottraendo risorse a investimenti e sviluppo. «Ecco perché il tema dell’adeguata comunicazione di questi dati non riguarda solo il dialogo con le istituzioni europee – ha spiegato il Prof. Brambilla – ma l’intero Paese, ormai assuefatto “all’assistenza di Stato”, anche per colpa delle promesse di una politica in perenne campagna elettorale e di misure a sostegno del reddito o volte a contrastare l’esclusione sociale finite impropriamente sotto il capitolo pensioni». 

Tanto più che, mentre le ultime riforme hanno colto l’obiettivo di stabilizzare la spesa pensionistica, «le uscite per assistenza – rileva il Professore – sono cresciute di anno in anno complici prestazioni che, senza alcuna contribuzione aggiuntiva, si sono sommate e sedimentate nella legislazione, senza che nessuno ne abbia mai previsto il riordino. Un quadro cui si aggiunge l’inefficienza della macchina organizzativa, ancor oggi priva di una banca dati dell’assistenza e di un’anagrafe centralizzata di lavoratori attivi previste da norme del 2004 e del 2015: eppure, solo un monitoraggio efficace tra i diversi enti erogatori (Stato, Regioni, Comuni, comunità), insieme a prove dei mezzi più consistenti di un ISEE facilmente raggirabile, può permettere di contenere i costi, aiutando con servizi e strumenti adeguati esclusivamente quanti hanno davvero bisogno».


I “cattivi” investimenti del welfare italiano

Complessivamente, il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato nel 2023 a 164,432 miliardi, con un aumento di 7,42 miliardi rispetto al 2022. Dal 2008, quando la spesa per assistenza ammontava a 73 miliardi, gli oneri a carico dello Stato sono più che raddoppiati, con un tasso di crescita annuo addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni che sono però sorrette da contribuzione di scopo. «Il tutto mentre il debito pubblico si avvicina pericolosamente ai 3mila miliardi e, secondo i dati Istat – precisa Brambilla – il numero di persone in povertà continua a salire (quelle in povertà assoluta erano 2,113 milioni nel 2008 e 5,7 nel 2023): verrebbe da dire che non solo spendiamo molto ma che spendiamo anche maleSe la distribuzione di sussidi a piè di lista, al posto di strumenti e servizi che aiutino a uscire dalla condizione di povertà, non favorisce la presa in carico di quanti sono davvero bisognosi, gli scarsi controlli incentivano lavoro nero e sommerso, generando uno dei tassi di occupazione peggiore in Europa». Come ricordato nel Rapporto, su 38 milioni di persone in età da lavoro l’Italia tocca il proprio record con poco più di 24 milioni di occupati.

Sono soprattutto due i rapporti che danno l’idea dell’incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul PIL, che vale il 29,31% con l’esclusione della “casa”, e quello sulla spesa pubblica totale, pari al 50,93%. In buona sostanza, al sistema di protezione sociale italiano è destinato poco meno di un terzo di quanto si produce e più della metà di quanto si spende in totale. Numeri che, trascinati da una quota assistenziale fuori controllo, contraddicono il sentire comune secondo cui l’Italia sarebbe poco generosa e spenderebbe meno degli altri Paesi dell’UE per il welfare: anzi, il rapporto tra spesa sociale e PIL ci colloca ai vertici delle classifiche Eurostat.

 «Giusto per avere un termine di raffronto – commenta Brambilla – a scuola e università sono riservati circa 83 miliardi contro i 90 per gli interessi sul debito pubblico, il che dovrebbe far riflettere tutti i cittadini pronti a ogni tornata elettorale a “premiare” le promesse più generose, senza domandarsi chi dovrà poi sostenerle finanziariamente o a quali altre fondamentali funzioni dello Stato saranno sottratte». Nel 2023, la spesa sociale complessiva ha di fatto assorbito il 58,57% del totale delle entrate contributive e fiscali statali. 

Nel complesso, se per INPS e Inail si può però parlare di “equilibrio”, vale a dire di un sistema pensionistico e assicurativo in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per assistenza, sanità (intorno ai 131 miliardi l’importo della spesa) e welfare degli enti locali (circa 13,4 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono appunto essere finanziati attingendo alla fiscalità generale.

Per dare un ordine di grandezza, a partire dai dati MEF sulle dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF riferite al 2022, il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali stima che per finanziare sanità e assistenza, nel 2023, siano occorse pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche circa 33 miliardi di imposte indirette. Di conseguenza, per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono che imposte residue, altre entrate e soprattutto il “debito”, ponendo peraltro anche un tema di equità e sostenibilità del sistema.

Il 75,80% degli italiani dichiara redditi da 0 fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 24,43% di tutta l’IRPEF, un’imposta neppure sufficiente a coprire i costi delle principali voci della spesa per protezione sociale, il cui finanziamento grava quindi sulle spalle degli altri versanti e, in particolare, di quei 6 milioni di contribuenti che dichiarano redditi oltre i 35mila euro. Un’enorme redistribuzione di risorse di cui spesso i beneficiari non si rendono neppure conto. 

Figura 2 – Il difficile finanziamento del nostro welfare state

Figura 2 – Il difficile finanziamento del nostro welfare state

Fonte: Dodicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Itinerari Previdenziali


Prospettive di breve termine e “soluzioni” per il futuro 

Ancora una volta, il documento identifica quindi il vero tallone d’Achille della spesa per protezione sociale italiana nell’assistenza, rispetto alla quale viene invocato un cambio di registro. Tra le possibili soluzioni individuate dal Rapporto, oltre alla messa in moto della banca dati, anche una profonda revisione dell’ISEE e controlli fiscali e contributivi più serrati, ad esempio – come accade in altri Paesi – nei confronti di quei cittadini che superati i 35 anni di età non abbiano ancora presentato una dichiarazione dei redditi. Alla stretta sull’assistenzialismo andrebbero poi affiancati concreti interventi sul nostro mercato del lavoro, rafforzando formazione, politiche attive e strumenti di incontro tra domanda e offerta; tutte misure in prospettiva più efficaci delle diseducative e inefficaci decontribuzioni che, come insegna la lunga storia italiana, non producono risultati, minano i conti pubblici e favoriscono, nella migliore delle ipotesi, incrementi dell’occupazione che si spengono alla fine delle agevolazioni. 

Quanto alla previdenza in senso stretto, il quadro appare più stabile anche in prospettiva, a patto che l’Italia prenda finalmente consapevolezza di essere dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi: da cui la necessità di limitare, davanti a un’aspettativa di vita sempre più elevata, le troppe forme di anticipazioni di questi ultimi anni a pochi ma necessari strumenti, come fondi esubero, isopensione e contratti di solidarietà (riportando però l’anticipo a un massimo di 5 anni), prevedendo viceversa incentivi – come il cosiddetto superbonus – per chi volontariamente desidera restare al lavoro fino ai 71 anni di età. 

Proprio i trend demografici impongono però, secondo il Professor Brambilla, un ripensamento del welfare a tutto tondo, tanto più che vincoli economici e di finanza pubblica impediranno ulteriori grossi aumenti della spesa per protezione sociale malgrado le pressioni legate all’invecchiamento della popolazione. 

«Serve una più forte integrazione tra pubblico e privato – ha concluso il Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali –  per arrivare al welfare mix che ormai caratterizza la maggior parte dei Paesi ad alto e medio reddito. Eppure, la politica resta diffidente nei confronti di quelle tutele complementari che potrebbero allentare la pressione sul sistema pubblico (e in particolare sul SSN): basti pensare che anche la Legge di Bilancio per il 2025 non ha previsto alcuna agevolazione per i fondi pensione né tantomeno per prestazioni LTC e fondi socio-sanitari cui risultano oltretutto già iscritti oltre 16,5 milioni di italiani». 

https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/ilpunto/pensioni/il-difficile-finanziamento-del-welfare-italiano-quanto-pesa-assistenza-sul-bilancio-dello-stato.html

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