In Emilia-Romagna nel corso del 2020 sono state 4174 le dimissioni/risoluzioni consensuali, in calo del 23,4 per cento rispetto all’anno precedente. L’Emilia-Romagna è la terza regione per numero di convalide, rappresentando il 9,8 per cento del totale. In Italia, nel 2020, al Nord sono state registrare 27516 (65 per cento del totale) dimissioni/risoluzioni consensuali; al Centro 8144 e al Sud 6717.
Sono questi i primi dati resi noti in occasione della conferenza stampa “Dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri: rapporto regionale sulle convalide anno 2020” organizzato da Assemblea legislativa, Consigliera di Parità regionale e Ispettorato Interregionale del Lavoro Nord-Est. Il Rapporto è un documento redatto ogni anno, strategico per programmare interventi e politiche attive sul lavoro, specie femminile. Tramite il rapporto vengono riportati i dati delle dimissioni volontarie dal lavoro disaggregati per provincia, sesso, numero di figli e causale. Guardando ai 4174 casi emiliano-romagnoli, si parla di 2984 donne e 1190 uomini. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di dimissioni volontarie, seguono giusta causa e risoluzione consensuale.
“La crisi – ha subito puntualizzato Sonia Alvisi, Consigliera di Parità della Regione – l’hanno pagata e continuano a pagarla soprattutto le donne. E le prospettive non sono rosee. Le donne si sono ritrovate a casa dopo decenni di lotte e conquiste, seppur parziali”. Il 79 per cento delle convalide totali riguarda lavoratori e lavoratrici italiani, in aumento rispetto al 2019. Il 71 per cento di queste riguarda lavoratrici. La fascia d’età più interessata per le lavoratrici italiane è quella che va dai 34 ai 44 anni, “di fatto il periodo in cui le donne italiane scelgono di avere un figlio, oltre che il momento in cui, oggi più di ieri, si riesce a entrare nel mondo del lavoro”, precisa Stefano Marconi, direttore dell’Ispettorato del Lavoro Nord-Est. Passando ai dati che indagano la qualifica, quasi nella metà dei casi si tratta di impiegati (49,14 per cento). Seguono gli operai (42,8 per cento) e poi apprendisti, quadri, dirigenti. Rispetto all’anno precedente, aumenta il numero delle dimissioni tra impiegati e quadri, mentre cala il numero di dimissioni tra gli operai “segno che, in pandemia, c’era molto bisogno di questo tipo di figure – aggiunge Marconi -. Tra le qualifiche va evidenziata una forte differenza di genere”.
Si registra una netta prevalenza delle donne, in termini assoluti doppia rispetto agli uomini, nella qualifica dirigenziale. Anche tra gli impiegati il genere femminile (56 per cento) è di gran lunga più rappresentato che tra gli operai (34 per cento). Per gli uomini le percentuali quasi si invertono: impiegati 32 per cento e operai 60 per cento.
Le donne, insomma, rappresentano la parte più qualificata, ma che ha comunque pagato un prezzo molto alto. Guardando ai numeri scorporati, hanno dato le dimissioni 1169 impiegate e 382 impiegati; 1068 operaie e 719 operai; 29 dirigenti donne e 14 dirigenti uomini. Quali sono i motivi alla base del recesso? In primis “la difficoltà di conciliare il lavoro con la cura del figlio per ragioni legate ai servizi di cura”: è questo il motivo della scelta di 1328 donne e 30 uomini. Dietro, “la difficoltà di conciliare il lavoro con la cura del figlio per ragioni legate all’azienda dove lavoro” per 809 donne donne e 35 uomini.
A segnare tutta la discrepanza tra generi, la voce “Passaggio ad altra azienda”, con un molto probabile miglior trattamento lavorativo: qui i ‘ruoli’ si scambiano: è questa la ragione per 896 donne e ben 957 uomini. Per i lavoratori, dunque, le dimissioni sono legate prevalentemente a un cambio di lavoro; per la lavoratrici si tratta, invece, di impossibilità di conciliare i tempi di lavoro con quelli di vita. Altra rilevazione interessante riguarda il settore produttivo: il 71,5 per cento delle persone che ha scelto di dimettersi lavora nel terziario, settore, come noto, a trazione femminile. Erogazione di servizi essenziali, scuola, sanità, pubblica amministrazione: “Il 75 per cento del personale scolastico è rappresentato da donne. Il personale sanitario femminile copre il 69,8 per cento del totale”, sottolinea Alvisi.
La fascia d’età delle donne italiane più colpita è quella tra i 34 e i 44 anni (1024 dimissionarie); per le lavoratrici extra Ue si scende alla fascia 29-34 (134). Nel caso di lavoratori dimissionari sia italiani sia extra Ue la fascia più rappresentata in questa particolare classifica è quella 34-44 anni. Soffermandoci al criterio legato all’età, le dimissioni diminuiscono progressivamente con l’aumentare dell’anzianità di servizio, “anche a indicare che, con il passare degli anni, aumentano le competenze e la non sostituibilità”, indica Marconi. Passando al numero di figli, sul totale delle convalide (sempre 4174), in 2525 si tratta di persone con un figlio; 1336 con due figli; 313 con più di due figli.
Analizzando l’età dei figli, le dimissioni sono state date, nel 60 per cento dei casi totali, entro il primo anno di vita del figlio; nel 36 per cento dei casi tra il primo e il terzo anno di vita; nel 23,7 per cento oltre i 3 anni di vita. “L’analisi è sconfortante – conclude Alvisi -. Molti abbandoni, in verità, sono tutt’altro che volontari”. E racconta il caso di Marina che, dopo aver avuto un figlio, al rientro al lavoro si è ritrovata in cassa integrazione per favorire la collega con partita Iva. “Per non parlare di tutte le domande lesive nei confronti della privacy che vengono poste in fase di colloquio: è sposata? Ha figli? Pensa ne avrà? Purtroppo sono ancora molte le aziende che vedono nella maternità un costo e non un investimento. La pandemia ha rivitalizzato molti degli stereotipi che sembravano sulla via dell’estinzione. Perché l’arrivo di un figlio è un affare di coppia, non della madre. Per questo speriamo nel ddl per il congedo obbligatorio di paternità. Si tratterebbe di una rivoluzione culturale nel segno della condivisione. I papà e le mamme di oggi devono emanciparsi dall’imperante patriarcato”. (Fonte www.redattoresociale.it)