Germania, epicentro della crisi europea. Economia non è tutto, i nodi vengono al pettine. I padani imparino la lezione e smettano di parlare solo di canone Rai e legge Fornero

7 Novembre 2024
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 di Stefania Piazzo – Recita stamane un’agenzia che la produzione industriale tedesca è calata a settembre del 4,6% rispetto allo stesso mese del 2023 e del 2,5% rispetto ad agosto. Entrambi i dati dell’istituto di statistica tedesco sono inferiori alle attese. 

Crisi che viene da lontano, cui si aggiunge come causa di quella economica, la crisi politica. Il licenziamento l’altro giorno del ministro delle Finanze, il leader dei liberali Christian Lindner, da parte del cancelliere tedesco, è un tassello di questa storia. Dopo il voto americano, a domino è venuto giù il resto. I ministri del liberale FDP (il partito “giallo” della coalizione “semaforo”, composta anche dal “rosso” SPD del cancelliere Olaf Scholz e dai Verdi), si legge, hanno lasciato il governo e il capo del governo parte per il vertice informale dei leader Ue con l’estensione, oggi, a Ucraina e Turchia, in programma oggi e domani a Budapest con una grave crisi in corso, giunta in un momento particolarmente difficile per la più grande economia europea.

Stop, fin qui quanto si apprende dalle agenzie. Il mix esplosivo è banalmente e superficialmente solo l’aumento della spesa da una parte e i tagli e il rigore dall’altra. L’esito della crisi è commentato così, a Berlino: “Questo non è un buon giorno per la Germania, né per l’Europa”, ha commentato il ministro degli Esteri, l’ambientalista Annalena Baerbock. 

A dipanare le nebbie e accompagnarci per mano nel ginepraio cultural-politico della crisi tedesca arriva in soccorso il germanista Giuseppe Reguzzoni, in una limpida analisi sul Sussidiario.

L’amico Giuseppe come interpreta e traduce i fatti? Il prof. Reguzzoni inizia con una doverosa citazione che calza a pennello anche per casa nostra e per tutti quelli che rivendicano solo sotto il profilo economico, una emancipazione del Nord dal resto della gestione romanocentrica del Paese. E sventolano solo numeri per chiedere autonomia e federalismo.

Scrive infatti Giuseppe Reguzzoni che “È l’economia che fa la mentalità o è la mentalità che fa l’economia? Sono passati più di cento anni da che Max Weber, dopo il suo viaggio negli USA nel 1904, pubblicò il suo celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dimostrando, malgrado le successive, numerose critiche da parte degli storici, come il modo di pensare possa incidere sulla gestione dell’economia e su ciò che sta alla sua origine, che il padre della sociologia riconosceva, non a caso, nei Paesi di tradizione calvinista”.

Dove sta l’attualità di questa analisi? C’è una connessione diretta e imprescindibile: “… il merito di questa analisi sta nell’aver colto la connessione stretta “tra la mentalità, in tutti i suoi fattori e nello specifico quelli di origine religiosa, e l’attività economica, dimostrando come la cura di quest’ultima dipenda strettamente dalla cultura (in senso antropologico) che la precede e la accompagna. È una constatazione che risulta attualissima e che demolisce un certo economicismo, oggi sostenuto soprattutto da parte neoliberale prima ancora che dai residui del modello marxista. A dirlo, in maniera eloquente, è l’evidente e irrazionale tracollo dell’economia europea e, in particolare, di quella tedesca, che non è spiegabile solo con fattori economici”.

Attenzione, non si tratta di affermare che allora i sovranisti hanno ragione. E che il ritorno agli stati nazionali sia la soluzione. Vorrebbe dire credere nel dogma di uno stato unitario intoccabile, come sta accadendo ora nella deriva della Lega, ma anche il suo contrario, ovvero credere che sistemate le tasse alla fabbrichetta e recuperata una parte di residuo fiscale, si viva tutti più felici e contenti, lontano da Roma. Di mezzo ci sono soggetti prepolitici assenti come la cultura, la storia, la formazione, l’istruzione, la scuola, la giustizia sociale, la comunicazione… Assenti nel primo modello, non pervenuti pure nel secondo progetto.

Ma torniamo ai tedeschi. Alla base del fallimento di una linea politica ed economica c’è, sostiene Reguzzoni, “un errore di prospettiva nella politica green che non ha motivazioni economiche, ma ideologiche; e la sottomissione anche culturale al modello USA (versione Biden), con una linea guerrafondaia sul conflitto ucraino che fa dell’Europa Occidentale e della Germania un alunno che, in questo caso, è tanto ossequioso del suo maestro-padrone da essere davvero “più papista del papa” (…). Vedremo, a questo punto, che cosa succederà dopo le elezioni americane, in cui la vittoria di Trump, osteggiata al massimo dai padroni del pensiero, tanto in Germania che in Italia, può rappresentare non solo una svolta radicale in politica estera, ma anche un salutare scossone“.

Eh sì, perché che piaccia o no, chiede alla politica di esprimere un’anima, un’identità, un’idea. L’Europa cosa esprime? L’Italia cosa esprime? E’ tutto solo classificabile in “Io credo negli italiani”?, noto slogan elettorale? Quali italiani? Quelli del lavoro che cresce ma che è un lavoro povero? Quelli che devono andare all’estero per vivere? Quelli che non trovano neanche più le liste d’attesa o il medico di famiglia e neanche gli infermieri? Quelli che a scuola non imparano più la grammatica? Quelli che ogni anno i docenti sono precari e tornano al paesello? Quelli che non hanno sbocchi dopo 20 anni di studio? Quelli con tre master a 1.100 euro al mese? Quelli che l’inflazione se li mangia? Quelli che non vanno a votare perché destra e sinistra sono miseramente identici?

Ma, al contempo, è anche interrogarsi su quel “Padania libera” che manca di presupposti prepolitici, e di progetti moderni. In 30 anni, il mondo è diventato un pelino diverso.

Nel mentre il voto Usa divide tra buoni e cattivi. Ma “i media tedeschi – puntualizza Reguzzoni – non possono più ignorare la spaventosa crisi economica e occupazionale che sta investendo la Repubblica Federale, solo in rari casi cogliendone peraltro il risvolto e i presupposti culturali”.

“Va bene l’ubbidienza (alla politica Nato, all’invio di armi in Ucraina, ndr) – forse meglio se non proprio cieca e assoluta –, ma è qui che l’insegnamento di Weber torna di attualità: prima dello Stato e prima dell’economia, o quanto meno parallelamente a essi, servono dei riferimenti ideali che sostengano la convivenza civile e facciano anche da stimolo imprenditoriale per lo sviluppo di una società. Giusto per non ondeggiare qual piuma al vento… È l’idea del pre-politico, che è, poi, anche pre-economico: “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”, scriveva il giudice costituzionale Ernst-Wolfgang Böckenförde. Ma dove trovare oggi questi presupposti?”.

Da nessuna parte, a casa nostra. E qui sta la sintesi: “L’idea liberale di un’economia che si fa da sé va palesemente a cozzare contro i condizionamenti esterni, ovvero le decisioni di politica internazionale prese altrove, e con le pregiudiziali ideologiche, che vanno da un modello che si pretende green alla grave mancanza di una propria consapevolezza identitaria. In sintesi: per sapersi muovere nelle situazioni di crisi, bisogna domandarsi chi si è e dove si vuole andare”.

Un’Europa al traino solo di parametri economici, o solo ossequiosa di equilibrismi granitici verso gli Usa, prima o poi va a sbattere. La Germania è capofila. Di recente la crisi tedesca sul Corriere della Sera è stata spiegata come l’evoluzione del modello Merkel, “gas russo a basso costo e porte aperte alla Cina”.

Ma Reguzzoni non condanna l’ex cancelliera. “Frau Merkel si è mossa con prudenza millimetrica, forse eccessiva, proprio nell’interesse della Germania, ben sapendo di non poter toccare più di tanto certi centri di potere sovranazionali. Invece di accusare il suo operato, con tutti i suoi condizionamenti storici, non sarebbe meno ipocrita ammettere apertamente che l’unico criterio, ahinoi, a guidare l’economia europea siano gli interessi degli Stati Uniti sulla base di rapporti di forza economica, politica e militare? E, per coerenza, smettere con la finzione di motivazioni democratico-umanitarie applicate con ampia discrezionalità? Ma, allora, se le cose stessero così, la svolta non potrebbe invece venire da una nuova consapevolezza di che cosa significhi essere europei, ciascuno con la propria storia e identità?”.

E’ qui che il problema diventa prepolitico. Avere le basi per capire e fare politica. Smettendo di ripetere da decenni solo le stesse cose. Dal canone Rai alla legge Fornero. Iniziando a usare i giornali per produrre idee, iniziando a capire come funziona e come cambiare il sistema scolastico (non basta metterci un “tuo” ministro o abolire il valore legale del titolo di studio, siamo ancora fermi lì?), iniziando a valorizzare l’uso della vanga. Ripartire dal contado, non dalle tessere, sarebbe la soluzione migliore.

Hai voglia poi a dire che i giornali hanno mascherato il fallimento della politica Usa. Quando mai vengono usati i giornali liberi per rilanciare la palla nel campo giusto? Mai. E questo è un altro dramma del prepolitico. E la condanna alla sconfitta elettorale. Oltre che culturale.

IL GIORNALE

Direttrice: Stefania Piazzo
La Nuova Padania, quotidiano online del Nord.
Hosting: Stefania Piazzo

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