di Stefania Piazzo – Che il voto ligure rappresenti, in piccolo, il disinteresse dei cittadini rispetto alla politica, è più che nitido. Perché la politica oggi non ti cambia, in meglio, la vita. Semmai, te la peggiora.
Le profonde incertezze di prospettiva, sul lavoro, sulle pensioni, sulla salute, sulla scuola, sono il propellente quasi scontato dell’astensione. Lasci parlare i politici, li lasci dire, poi tiri dritto sulla strada della sopravvivenza, perché nel quotidiano la realtà impone questo, la sopravvivenza. Vuoi perché le guerre hanno inciso sulle speculazioni delle materie prime, vuoi perché devi fare debito per coprire i fabbisogni e l’assistenzialismo, le clientele previdenziali, vuoi perché “ce lo chiede l’Europa”, ed è tutto un taglio.
Mentre il dibattito politico è tutto concentrato sul pugno di voti che ha fatto la differenza tra i candidati Bucci e Orlando, promuovendo il primo solo perché a sinistra l’ideologia vince ancora e taglia fuori Renzi, ebbene, mentre tutti scrollano i risultati su Eligendo, l’analisi politica e sociale del Paese la dà un’intervista di Alessandro Profumo sul Corriere della Sera.
Nella rassegna economica del giornale, ieri veniva proposta la sua lettura in un colloquio chiaro con Dario Di Vico.
Titolo: Più poveri e giovani in fuga, che cosa sta capitando al Nord?
Novità? Nessuna, perché a dire il vero l’Istat, e non solo, lo rileva da tempo. E cioé che le famiglie, al Nord, e pure i singoli lavoratori, al Nord, si stanno impoverendo. Altri, lo sono già, poveri. Che il costo della vita sia sproporzionato rispetto ai salari, lo si sa da decenni. Che sia sempre più irraggiungibile vivere nelle città come Milano, diventata luogo per ricchi, per turisti da affitti brevi, è risaputo. Milano non è moda, non è fashion, non è sviluppo, Milano è un castello per pochi eletti. Per un target che non è umano.
Si interroga Di Vico. “Aumenta la povertà tra gli operai del Nord e dagli stessi territori continua la fuga dei talenti che scelgono di andare all’estero. Cosa sta succedendo alla società settentrionale? Quali contraddizioni la attraversano e la lacerano? E che nesso c’è con l’andamento del sistema produttivo, da sempre vanto del Paese e addirittura carta d’identità per farsi valere in Europa e nel mondo?”.
E Profumo dà una spiegazione. Dice quello che i partiti in corsa alle regionali, così come alle politiche, non osano dire. Per non perdere consenso nazionale. Per non perdere la patina di partito che rappresenta tutti. Al punto da non rappresentare più nessuno.
La prima questione è questa. I numeri, dice, “credo (…) siano il portato di una strategia della competitività storicamente centrata sui costi e non sul valore aggiunto, anche se ottenuto lavorando sulle nicchie di mercato. Lo schema degli incentivi e del taglio delle tasse non ha spinto il sistema in alto, non ha modificato la dimensione delle imprese e ci ha resi più fragili nella competizione globale (…). Naturalmente questo tipo di scelte ha coinvolto i governi che si sono succeduti ma indica anche una debolezza del sistema di rappresentanza delle imprese”.
Proviamo a tradurre. La competitività deve tagliare, il lavoro deve costare meno, altrimenti non stai sul mercato. Non lavori sulle risorse umane. Le spremi. E accade non solo nelle microimprese ma nella grande distribuzione. Uomini e donne macchina che vivono di sbancalamento di scaffali per le multinazionali. E tieni i salari bassi per stare a galla o per aumentare la tua di redditività. Tagli i costi, col culo degli altri, e cresci nel profitto, sulla salute degli altri. A galla però i lavoratori non riescono più a stare, in un sistema dove i costi, per vivere, sono via via inaccessibili. Ma se il costo del lavoro incide, se le tasse incidono, il problema tocca il costo dello Stato. La sua organizzazione. La sua struttura. Questione intoccabile, dogmatica. Assente.
Noi vediamo l’esito finale del processo. Che Profumo delinea così. “Abbiamo il costo-ingegnere più basso di tutti e di conseguenza un laureato prende il passaporto e se ne va. Del resto ormai si lavora dappertutto in inglese e le vecchie barriere sono cadute. Per questo dico che il mondo dei datori di lavori si dovrebbe interrogare. Quanti di loro sono rimasti al piccolo è bello?”.
La questione sta tutta nella dimensione delle imprese? Il nanismo familiare? Ma se si devono adeguare le imprese, perché non si deve adeguare anche lo Stato verso una forma non clientelare, meno contorta, meno burocratica, più efficiente, più centrata sulla responsabilità di spesa e non su cancrene eterne di disorganizzazione e buchi neri pubblici?
Torna Profumo a ricordare che “I Politecnici di Torino e Milano, solo per limitarmi a un caso, sono ottimi atenei. Il problema si crea quando gli ingegneri laureati cercano un posto di lavoro in Italia ben remunerato. Trovano imprese familiari che non sono in grado di ingaggiarli”. E prosegue: “… da noi molto più che altrove non si sono managerializzate, rimangono gestite dalle famiglie e novanta su cento restano piccole”.
Vero, ma la visione non dovrebbe essere a 360 gradi? Il sistema nel quale operano le piccole imprese, non è su Marte, ma gravita attorno al sistema fiscale che schiaccia in basso la redditività. E in quello stesso sistema c’è l’evasione fiscale, il pagare poco e il non pagare. Che paghiamo noi, nelle liste d’attesa, nella scuola precaria, nei servizi terzomondiali.
Insomma, va bene che la questione sia pure centrata su un modello vecchio di fare impresa, ma di vecchio, attorno a questa ciambella bucata, c’è un centralismo statale dove le sacche di inefficienza generano costi di mantenimento insopportabili. Ma la questione non viene neanche citata, accennata. Lo Stato, così com’è, non si mette in discussione. All’estero, dove i giovani del Nord scappano, i sistemi sono federali. Sarà un caso? I medici e gli infermieri del Nord che fuggono in Svizzera, paese confederato, sono un caso? I laureati che volano in Germania, paese dei land, sono un caso?
Di Vico chiede a Profumo. Dentro il Nord spicca il ruolo di Milano, città-vetrina e anche città-calamita. E lui risponde: “Sì, ma non rappresenta tutto il Nord. È una città globale con mille problemi e soprattutto ha costi globali e redditi italiani. Ciò l’ha resa invivibile al ceto medio per la lievitazione del costo della vita. Penso a ciò che è accaduto con l’estendersi degli affitti brevi e con il rientro in Italia con benefici fiscali di soggetti abbienti. Ci vogliono delle regole altrimenti la città è destinata a soffrire. Città più piccole soffrono meno”. A cosa si riferisce? “Per non andar lontano a Brescia e Bergamo, Vicenza o Udine. Città dove il depauperamento dei giovani che vanno via si sente di meno. Il costo della vita è più accettabile”.
Dunque esistono due Italie. Una non è mai citata. L’altra è al Nord, dove gli operai sono più poveri, e gli ingegneri, i medici, i sanitari se possono vanno via, si paga la posizione di rendita della metropoli, si pagano prezzi esorbitanti per le autostrade e le pedemontane, si deve vivere in periferia o in piccoli centri per starci dentro. E in tutto questo, non si affronta la questione di merito. Se vivessimo in uno Stato federale, meglio organizzato, i servizi costerebbero così tanto come ora? Le risorse tornerebbero un po’ di più a casa? L’innominabile residuo fiscale potrebbe alzare i redditi, le pensioni, contenere le tasse?
Altra domanda. L’occupazione in Italia però ha raggiunto quota 24 milioni, un record e il Nord qualcosa c’entra. “Detto che il tasso di occupazione è ancora basso, sicuramente meglio tagliare il traguardo dei 24 milioni che non farlo. Ma ci dobbiamo chiedere che tipo di lavori stanno aumentando. E purtroppo la risposta è che si tratta di lavoro povero. Lo dimostrano i consumi interni che sono stagnanti ed è una cartina di tornasole che non sbaglia. Sta aumentando l’occupazione, ma non il reddito disponibile”.
E aggiunge: “Un modello di sviluppo centrato sul lavoro povero trascina in basso in tutto. E arriviamo persino alla bassa natalità (…). La povertà aumenta tra gli operai, ma anche tra gli insegnanti e gli infermieri. A Milano non si trovano gli autoferrotranvieri perché gli stipendi non consentono loro di vivere in città. C’è una povertà diffusa del lavoro”.
Profumo boccia l’autonomia differenziata. “… è qualcosa che indebolirà il Paese. Lo vediamo nella sanità: esiste un grande pluralità di cartelle sanitarie per cui non si possono sviluppare i database necessari per curare e prevenire. Poi quando sento parlare del commercio estero gestito dalla Regioni rabbrividisco. Così, frazionandoci verso il basso, indeboliremo la nostra capacità di competere”.
Sarebbe utile sapere che modello di Stato potrebbe funzionare, allora. Dato per acclarato che al Nord si vive di lavoro povero, che il lavoratore deve essere quasi gratis, e che tutto il resto se lo intasca l’erario, forse non basta una piccola impresa managerializzata ed evoluta, dove l’imprenditore smette di fare il “padrone”, rispettando le competenze umane. La questione settentrionale non è solo una questione familiare.
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