di Stefania Piazzo – Se c’è una questione settentrionale che non risuona come dovrebbe nei programmi della politica è senza dubbio quella che riguarda la fuga dei giovani del Nord dai territori. Non votano, non si sentono rappresentanti, non vedono futuro nelle regioni in cui vivono, non hanno prospettive. Non si ritrovano nel mercatino dell’usato dei partiti, nelle solite categorie comunisti-fascisti, destra-sinistra, e pure centralisti-autonomisti. Non sentono il linguaggio dei loro bisogni, delle loro necessità. Ovvero un lavoro adeguato alla formazione che hanno ricevuto e una meritocrazia che alimenti il sogno di un progresso, di un avanzamento sociale. Contratti precari, sottopagati, impossibile mettere su casa, fare figli. Essere gratificati.
Chissà poi se scuote qualche sinapsi politica il dato che il capitale umano perso, e buona parte è del Nord, viene stimato, come poi vedremo, in 134 miliardi di euro totali (quasi 75 concentrati solo nelle regioni padane ma si tratta di una sottostima. Quantitativamente sul numero di migrazioni, si legge infatti che “Le cifre reali sono tre volte più grandi delle ufficiali” (cit. Luca Paolazzi, direttore scientifico Cnel), dunque in proporzione i dati andrebbero moltiplicati per tre. Come e più il residuo fiscale del Nord. Lo vedremo ripreso, questo dato, da qualcuno a cui si accende una piccola luce leggendo il nostro quotidiano?
La recente indagine della Fondazione Nordest, che dovrebbe diventare un mantra, un’Ave Maria di chi fa politica, passa invece inosservata.
Basti dire che l’87% di chi ha detto ciaone al Nord, all’estero sta bene e non ha intenzione di prendere il biglietto di ritorno.
“Dal 2011 al 2021 451mila giovani italiani (18-34 anni) hanno lasciato il paese. Al netto dei rimpatri, il saldo migratorio è stato negativo per oltre 300mila persone (-317.042). Un’uscita che è ripresa nel 2022 e nel 2023, svanita ormai l’illusione che i rientri nel biennio della pandemia potessero costituire un’interruzione della tendenza. Ma affrontando il problema nel profondo – si legge – non ci si può che smarcare in fretta dai freddi numeri per immergersi appieno nella gravità della situazione, che innalza la fuga dei giovani a vera emergenza nazionale”. Visti i dati, in emergenza come questione settentrionale.
Invece, risposte non ce ne sono. E il quadro è l’indicatore di una arretratezza culturale dei partiti, fermi su slogan, promesse e rivendicazioni ancora ingabbiate dentro schemi che funzionavano decenni fa. Oggi, se il Nord è all’apice dell’emergenza, è perché al Nord non si è capito affatto come gestire il proprio futuro. La questione settentrionale non è l’immigrazione, non è la fabbrichetta, non è il solo il fisco, non è solo il canone Rai. Sono i giovani.
Si pensi che per ogni ragazza o ragazzo di Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svizzera e Regno Unito che viene a casa nostra, in terra padana, 8 giovani residenti nel Settentrione fanno la scelta inversa. Lasciano la terra promessa padana.
“In un mondo che parla di “caccia ai talenti” o di brain circulation, il Nord Italia – solitamente lodato per attrattività rispetto al Mezzogiorno – si presenta come una bottiglia senza tappo, orientata verso il basso. In dieci anni è infatti raddoppiata la quota di laureati sul totale – da 20% a 41% – di chi va via ed è aumentata di 17 punti quella dei diplomati, da 26% a 43%. Purtroppo, l’immigrazione di giovani da paesi extra UE non è sufficiente a compensare la perdita di capitale umano, per via del differente livello di istruzione”, sottolinea la Fondazione nel commento al Report.
Ma le evidenze che ne scaturiscono non sembrano essere la preoccupazione primaria dei partiti, che usano un linguaggio da mercatino dell’usato, e neanche tanto sicuro, senza indicare come e quando rivedere le politiche giovanili. Vecchi partiti in un Paese sempre più vecchio.
L’indagine ha coinvolto un campione di 1921 unità statisticamente rappresentativo della popolazione tra i 18 e i 34 anni residente nel Nord Italia e, dall’altro, 856 risposte di giovani coetanei espatriati – sempre provenienti dal Nord Italia.
Spicca, nelle risposte, che “un expat ritiene il proprio futuro più ricco di opportunità e maggiormente frutto del proprio impegno rispetto ad un coetaneo residente nel Settentrione, anche se in generale risulta più esigente in fatto di condizioni di lavoro”. Quello che conta è il “buon equilibrio fra vita lavorativa e vita privata”, al terzo posto la retribuzione, tema sensibile in chi fa il sacrificio di espatriare. Perché ne deve valere la pena. E visti i dati, lo vale.
La Fondazione parla chiarissimo. “Più di un giovane su tre residente nel Nord immagina il proprio futuro prossimo – orizzonte di tre anni – al di fuori dello Stivale ed indica le occasioni di crescita professionale come prima motivazione per l’espatrio, anche se una porzione consistente sarebbe disposta ad accettare un impiego non in linea con la propria formazione, pur non accettando uno stipendio basso. È indicativo come solo il 16% degli expat – che in tre casi su quattro avevano già avuto esperienze all’estero – si immagina in Italia nei prossimi tre anni e comunque indica la famiglia come principale motivazione di rientro”.
Il 50% dei giovani già all’estero sono pronti anche a nuovi trasferimenti, purché vi siano ulteriori opportunità per migliorare le propria posizione. Tornare a casa non è una priorità.
Cosa viene tenuto in considerazione? Si va dall’inclusione sociale al gruppo di lavoro, all’interesse sul progetto, all’internazionalizzazione del datore di lavoro, alla reputazione di cui gode, oltre che la retribuzione.
Concludendo… “la tanto decantata qualità della vita del Bel Paese – pur con parziali eccezioni riguardanti il servizio sanitario e il sistema universitario – non sembra essere percepita come tale dalle giovani generazioni di italiani, le quali sono alla ricerca di migliori opportunità economiche e di lavoro e si sono dimostrate pronte alla scelta più drastica: espatriare. Così creando nel Settentrione un vuoto di capitale umano, potenziale innovativo, di crescita e di sviluppo economico e sociale difficilmente colmabile”.
Per tutta risposta, di cosa si occupano a tempo pieno i partiti? Quali ambizioni nutrono? Che contatto reale hanno con le scuole, con le università? Con le multinazionali che vengono in Italia per cercare manodopera a basso costo?
Basta farsi un viaggio dentro la Gdo, la grande distribuzione, quella di tanti supermercati o “moderne” catene che affollano l’urbanizzazione del Nord, e fare due chiacchiere con i lavoratori, giovani soprattutto. Laureati, diplomati, già store manager o quasi a 25 anni, e chiedere: Scusa, quanto guadagni? Quante ore lavori? Quanti roll sbancali al giorno e in che tempi ti obbligano a sbancalarli? Oppure farsi un giro negli studi professionali e chiedere a preparati laureati con master quanto sono retribuiti. L’altro giorno un amico mi ha riferito che un suo compagno d’università, laurea e tre master, esperienza anche all’estero, non porta a casa più di 1.100 euro al mese.
Non si venga a dire che è solo colpa del costo del lavoro. La cultura padronale del lavoro al Nord è più che diffusa e laddove vi sono le grandi catene, la spinta è quella di aumentare la produttività riducendo il costo del personale. Colpa della globalizzazione. O della corsa alla redditività di pochi?
L’immagine è impietosa e oggettiva. Il Nord è una bottiglia senza tappo, orientata verso il basso. Appunto.
Ed è il Nord che ha le chiavi in mano di se stesso, a perseguire questa strada di povertà umana della politica, di ignoranza politica, istituzionale, di ingordigia di posti, per sè, non per quelli che liberi da schemi di partito, lasciano il Nord, per vivere.
Due numeri in croce. Per la Lombardia è una perdita di capitale umano stimato in 23 miliardi di euro circa, per il Veneto 13. Ma se si aggiungono le altre regioni del Nord a quale cifra si arriva? Almeno alla metà del noto residuo fiscale del Nord che tanto viene rivendicato. E, complessivamente a 134 miliardi di euro. Dunque, siamo lì come numeri. Ecco, non è solo una questione di soldi, ma di cervelli. Che, giustamente, vanno dove ci sono più neuroni organizzati ad accoglierli.
Alla presentazione del report al Cnel, un analista ha detto le cose come stanno.
“Il valore del capitale umano uscito è stimato da Fondazione Nord Est in 134 miliardi. Ma il deflusso reale – ha affermato Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione Nord Est – è tre volte più grande e alimenta la competitività e la crescita degli altri Paesi europei. Nel movimento di giovani persone tra i Paesi europei l’Italia partecipa da grande fornitrice di persone ed è quindi fuori dalla circolazione di talenti perché è ultima per attrattività. È pericoloso continuare a cullarsi nella favola bella che facciamo parte di quella circolazione, perché vuol dire fingere che la bassa attrattività non esista. L’emigrazione dei giovani italiani non solo rende più difficile per le imprese la ricerca di persone da assumere ma accentua enormemente il mismatch tra domanda e offerta di competenze”.
Altro che ponte sullo Stretto sì o no, canone Rai sì o no. Il 35% dei giovani del Nord Italia è pronto a trasferirsi all’estero. Uno su tre ci vuole restare. E queste risorse umane valgono tanto quanto il residuo fiscale del Nord. Occorre aggiornare la narrazione dell’emancipazione del Nord, forse? O si resta ai vecchi schemi che, da soli, dimostrano di non riscuotere il consenso di 30 anni fa né il voto giovanile?
Scrive il Cnel: “La visione del futuro è nettamente più positiva tra chi ha lasciato l’Italia: il 69% si aspetta un domani “felice”, contro il 45% di chi è rimasto; il 67% lo ritiene “ricco di opportunità”, rispetto al 34%; e il 64% lo vede “migliore”, contro il 40% di chi non ha lasciato il Paese. Al contrario, tra i giovani che restano in Italia prevalgono le visioni negative: il 45% teme un futuro “incerto”, il 34% lo vede “pauroso”, il 21% lo ritiene “povero”, e il 17% lo immagina “senza lavoro”, contro percentuali molto più basse tra gli expat”.
Che aggiunge: “Chi ha trovato all’estero un riscatto personale sono molto
sentite le questioni ambientali (“non c’è spazio per i giovani” 27,9%, contro
19,2%; “migliore qualità della vita” all’estero 19,8% contro 12,4%). Mentre
tra chi se ne andato per scelta forte è la critica verso il provincialismo
culturale italiano (se rientrassi, “non troverei un ambiente aperto,
internazionale” è indicato dal 23,3%, contro il 6,2% dell’altro gruppo)”.
Poi, colpo finale. “I giovani italiani, sia quelli che vivono nel Nord Italia sia quelli che sono emigrati, bocciano senza appello la cultura imprenditoriale italiana. In particolare, giudicano un fattore di poca attrattività del Paese l’attenzione alle esigenze dei propri collaboratori, la presenza di imprese innovative e la cultura manageriale e imprenditoriale”.
https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=6BC27DEE89649709C1258BA1004B5E98
https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=146A2430BCB64DBCC1258BC0002BF6FB
https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=1AB94949F26BE7B0C12588B0004CFB4C
https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=56C64E1C41CA3EE1C1258B0400539F95
https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=E2C575AB0451A06DC1258B04004DEFEE
https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=57A816C7648121DFC1258B1A002DC2C9
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https://www.fnordest.it/gate/contents/documento?openform&id=6CABDCE9540EC219C1258BD200611003